Stefano Malchiodi, regista di Cinquemarzo, ci racconta la genesi e la realizzazione della sua seconda opera, fatta in collaborazione con amici e colleghi del suo percorso formativo cinematografico. Il cortometraggio, esordito alla XXI edizione del Rome Indipendent Film Festival, riesce a comunicare privandosi quasi completamente della parola e del video l’esperienza di mutevolezza emotiva della fine di una relazione, raccogliendone i ricordi tramite un linguaggio espressivo fotografico che incapsula efficacemente l’istantaneità della natura suggestiva e dispersiva della memoria.

Raccontami brevemente del tuo percorso formativo cinematografico e delle tue esperienze nel campo.

Dopo il liceo ho frequentato la Civica di Cinema a Milano dove mi sono diplomato in Produzione Cinematografica e Televisiva nel 2014, con una tesi sul cinema indipendente. Però in quegli anni, facendo piccoli lavori all’infuori della scuola, avevo capito che la mia passione era il montaggio, così una volta diplomato ho deciso di provare le selezioni per il Centro Sperimentale, dove sono entrato a gennaio 2015. Sono stati tre anni molto formativi che mi hanno permesso di sperimentare con il linguaggio, esperienze che sono state poi fondamentali quando ho sentito che volevo provare a fare un corto mio. Pochi mesi dopo la fine dei corsi al Centro ho deciso di provare a girare una sceneggiatura che avevo scritto, e ho chiesto aiuto a insegnanti e compagni di scuola per realizzarlo. Così è nato il progetto di Anne, che ho girato in co-regia con Domenico Croce nel 2018 – talentuoso giovane regista e carissimo amico – e che ha vinto il David di Donatello al Miglior Cortometraggio nel 2021. È stato un progetto molto complicato tecnicamente, ma è stato entusiasmante lavorare in maniera indipendente con amici e colleghi con cui ero cresciuto a scuola. I premi che poi il corto ha ricevuto ci hanno confermato che era la strada giusta. Poco tempo dopo l’uscita di Anne ho scritto il nuovo cortometraggio, Cinquemarzo, su cui ho deciso di concentrarmi alla fine del percorso del primo.

Come è nato il progetto di Cinquemarzo, e da quale desiderio? Parlami della realizzazione del corto, della collaborazione con i partecipanti, e se hai a riguardo qualche aneddoto particolare da ricordare.

Cinquemarzo è un progetto molto personale, più di Anne. Ho avuto una passione per la scrittura fin da quando ero piccolo, anche se molto di quello che scrivo lo sento ancora come una parte intima, che proteggo e che mi serve per elaborare certi blocchi, oppure dei momenti difficili. In uno di questi periodi complicati mi svegliai una mattina presto con quella sensazione, che a volte ci coglie quando abbiamo troppi pensieri ed emozioni che non riusciamo a sciogliere: mi misi al computer e scrissi per qualche ora, le parole uscivano di getto, nemmeno le pensavo. Quello sarebbe stato il primo nucleo del futuro Cinquemarzo. Non sapevo allora che l’avrei reso qualcos’altro, anzi in quel momento l’unico motivo di quello scrivere era catalizzare delle energie difficilmente elaborabili consciamente, e in tal senso era stato utilissimo perché dopo averlo concluso mi sentii immediatamente meglio. Lo feci poi leggere a qualche strettissimo amico e l’impatto emotivo che ebbe su alcuni di loro mi fece pensare che forse era utile condividere quella cosa anche con altri. Così nacque l’idea di farne un corto e mi misi a lavorarci a quattro mani con Lorenzo Bagnatori, altro talentuoso giovane sceneggiatore, sempre conosciuto a scuola – e con cui abbiamo anche scritto Anne. Inizialmente il nucleo della mia scrittura doveva essere il voice over del corto, che invece è assente nella forma finale. Questo perché Cinquemarzo è stato un lavoro in divenire, e ad un certo punto mi ero reso conto che le immagini parlavano così tanto di quello che volevamo dire, che delle parole non c’era quasi più bisogno, e così decidemmo con Lorenzo di toglierle e lasciare allo spettatore la libertà di creare la sua storia all’interno di un immaginario, senza dare alcuna spinta o chiave di lettura, tranne qualche piccola informazione. Ma le parole che scrissi non sono scomparse, sono state la linea e la guida per tutte le fasi delle nostre lavorazioni, semplicemente avevano talmente permeato tutto il racconto che erano diventate ridondanti. Alla luce di tutto ciò, il desiderio dietro la realizzazione di Cinquemarzo era creare un viaggio per immagini, con la speranza che potesse operare almeno in qualche spettatore una catarsi che avesse lo stesso effetto benefico che ebbe su di me lo scrivere il racconto originale.

Riguardo la realizzazione, è stata piuttosto complicata. L’idea di realizzare il corto per immagini fisse era già dall’origine uno dei pilastri su cui si fondava il progetto. Ne ho parlato prima di tutto con Alessandro e Walter, dell’Anemone Film – anche loro, ex compagni del Centro, con cui avevamo già realizzato Anne. Due anni fa eravamo assieme in vacanza d’estate e gli accennai del progetto. Da lì a qualche mese proposi l’idea anche ad altre persone del Centro: a Camilla e Nicola e alla loro Amartia Film, e a Gugliemo e Francesca della 10D Film, e insieme decidemmo di realizzarlo. Il passo successivo è stato contattare la figura fondamentale di questo racconto per immagini, ovvero Maria di Stefano, amica e fotografa di esperienza internazionale e di alto livello nel campo, che lavora molto con immagini evocative e non banali, le quali hanno a mio avviso una forma di espressione dell’inconscio. A volte non ti spieghi perché uno dei suoi scatti ti piace o ti colpisce, questo perché non lavora con stilemi tradizionali e mi interessava che il suo lavoro in qualche modo coincidesse con la ricerca di linguaggio che volevo fare. Così le ho parlato del progetto e dopo un confronto è iniziata la realizzazione vera e propria, con l’enorme contributo visivo e artistico della scenografa Marta Morandini – sempre ex compagna del Centro, nonché coinquilina e amica fraterna – che ha curato il design del set. Come attori avevo bisogno di due ragazzi giovani, che rappresentassero una sorta di primo amore simbolico. La scelta non poteva ricadere meglio che con Claudio Larena e Alessia Peruzzi, ragazzi talentuosi, intelligenti e di grande sensibilità. Nel corto c’è una grande ossessione visiva per il corpo di Alessia e il suo volto, che è poi l’ossessione del protagonista, per cui cercavo qualcuno con uno sguardo che rimanesse impresso nella memoria, e sicuramente quello di Alessia ha questa qualità. Il lavoro sul set, pur essendo un corto, è stato complesso: ricreare anni di relazione in quindici minuti tramite scatti fotografici richiede una grande varietà di momenti. Abbiamo fatto nove giorni di shooting per dare questo ampio spettro di possibilità, scattando circa sessanta rullini – tradotto: più di 2100 fotografie – e realizzando moltissimi ambienti diversi grazie al lavoro enorme di Marta e delle sue assistenti, Ludovica e Alessandra Galletta.

Sul set c’è stato sempre un clima piacevole e stimolante, nonostante le difficoltà tecniche e la penuria di finanziamenti e di tempo per realizzare questa grande mole di immagini, grazie alle persone che hanno scelto di collaborare al film, che sono state tutte impeccabili, professionali e umane, e che spero possano ritrovare un po’ di loro in diverse parti del corto. Finito il set è iniziata la fase di post-produzione, forse la più difficile: da montatore affrontare le immagini fotografiche è stato più complicato che da regista. Lavorare con immagini fisse è molto diverso rispetto al lavoro sul video, con tempi, ritmi e andamenti che vanno appresi praticamente da capo, per tentativi. Ci ho messo circa sei mesi prima di arrivare a una forma definitiva che mi convincesse. In questo, i consigli e suggerimenti di amici di cui ho profonda stima sono stati fondamentali, nonché il lavoro quasi giornaliero con Lorenzo. Da qui è partito il lavoro sul montaggio del suono e il mix, di Giulio Previ e Riccardo Gruppuso del Centro, con cui è stato fatto un lavoro intenso e attento per dare a queste immagini una tridimensionalità, non per forza realistica quanto suggestiva, che potesse contribuire alla sensazione di attraversare un universo di ricordi dolorosi, ma anche felici e intensi. Parallelamente in questo senso, abbiamo lavorato con Dario Tatoli, in arte Makai, che ha firmato la colonna sonora facendo un lavoro magnifico, e infine con Giulia Vallisari, che ha composto e interpretato la traccia finale sui titoli di coda. Senza anticipare nulla, mi serviva un pezzo musicale staccato da tutto il resto del racconto sonoro, e che fungesse da “catarsi” finale rispetto al doloroso viaggio precedente: Giulia è riuscita in questa delicata impresa e ha realizzato un pezzo perfetto per quel momento.

L’ultimo giorno di riprese dovevamo bruciare un oggetto, che allora pensavamo fondamentale per la storia anche se poi nel montaggio finale ne è uscito ridimensionato. Però era importante farlo e sarebbe stata l’ultima cosa che giravamo. Così andammo in un campo aperto, bruciammo l’oggetto e nel mentre io e Maria scattavamo a profusione. È stato un momento liberatorio, un percorso era finito e adesso si faceva un passo avanti. Non so se è stato lo stesso per gli altri, ma ricordo che quel giorno avevo la sensazione di sentirci tutti accumunati dalla fine di quel viaggio di realizzazione del corto, e che in qualche modo avevamo condiviso delle emozioni che sarebbero rimaste con noi.

Cinquemarzo presenta una particolare istantaneità, per la forma diaristica e il linguaggio principalmente fotografico. Cosa ti ha portato a optare per questo linguaggio, e quali pensi siano le sue qualità aggiunte rispetto al video?

Quando pensai di trasformare Cinquemarzo in un cortometraggio, sentivo che non avrebbe avuto chissà quale forza nella forma di un racconto classico, perché in fondo parla della fine di una relazione. Quello che mi interessava e ossessionava rispetto al tema erano le immagini ricorrenti, ovvero quei ricordi e quelle istantanee che conserviamo nella nostra memoria e quando soffriamo per la fine di qualcosa ci tornano in mente, ciclicamente, riportandoci a dei giorni o a degli avvenimenti che abbiamo memorizzato senza saperne il motivo, mentre di molti altri che consciamente potremmo ritenere più importanti non ne abbiamo più traccia. Mi interessava questo rapporto fra dolore, lutto e immagini, e volevo ricreare quella sensazione di navigare nelle memorie di un amore per cercare di capire il senso di una fine, che è una cosa che il nostro cervello fa anche se vorremmo solo andare oltre. Questo è il motivo che mi ha spinto a orientarmi su un racconto per immagini fisse, istantanee, perché era il modo più coerente di rispettare questo sentimento e questa idea. Mi piace sperimentare con il linguaggio, ma la sperimentazione pretestuosa ha fondamentalmente un valore di tentativo e scoperta che non è detto che funzioni, al fine di comunicare qualcosa. Invece, credo l’importante sia sperimentare in maniera coerente con il tipo di racconto: sentire dentro di te che non c’era altro modo per raccontare quella storia. Ovviamente non è una verità, ma se lo senti davvero qualcosa di giusto dentro c’è.

Hai sempre avuto “nel cassetto” la volontà di creare un’opera come Cinquemarzo? In cosa è simile, o diversa, nei tuoi intenti, dai lavori realizzati in precedenza?

Non so se ho avuto sempre il desiderio di creare qualcosa di simile a Cinquemarzo. Sicuramente posso dire che vedere La jetée di Chris Marker ebbe un effetto molto forte su di me, ripensai a quel film per giorni e ancora adesso ricordando l’emozione che provai la prima volta che lo vidi, mi sento di dire che quel tipo di trasporto è quello che, nei sogni più arditi, vorrei poter saper trasmettere anche io. Ovviamente Cinquemarzo è figlio di quel film, anche se devo dire che l’istinto iniziale di lavorare per immagini fisse veniva più dalle giustificazioni in seno al tipo di storia e all’ossessione per i ricordi di cui parlavo prima. Sicuramente, è comunque un’opera con una forte indipendenza, anche rispetto ai miei lavori precedenti, per il tipo di linguaggio e perché non avevo mai lavorato così tanto su immagini fisse, a cui bisogna dare un movimento suggerito alla mente con l’alternanza e il ritmo, le quali vanno “mosse” con il montaggio e non con l’azione interna. È stata una vera sfida, ma che ha il vantaggio di accendere un lavoro più cerebrale per lo spettatore, come quando si legge un libro e bisogna ricreare dei dettagli e delle parti di racconto che non si possono vedere. È una fruizione più attiva di quella di un classico film e mi interessava che lo spettatore riempisse con la sua storia gli spazi vuoti. Però, ci sono anche tanti punti ricorrenti che lo collegano ai lavori precedenti: già in Anne, nonché nei miei primi corti di puro montaggio – in cui utilizzavo immagini di repertorio per narrare una storia inventata –, questo filo invisibile dei ricordi è molto presente ed è a ben vedere il vero fulcro del racconto. Sono ossessionato dalla memoria e dai ricordi fin da quando ero piccolo, e probabilmente questa ossessione passa anche inconsciamente nelle cose che faccio.

Dopo questa importante selezione, quali progetti hai in corso, o futuri?

Al momento sto lavorando allo sviluppo di un nuovo cortometraggio, il cui titolo sarebbe Al buio e che parlerà ancora una volta di relazioni, che vorrei girare in un’isola mediterranea, con un’intenzione e un linguaggio molto diversi da Cinquemarzo. Come sempre, trovare i finanziamenti e le risorse logistiche per realizzarlo non è facile, ma lavorando al fianco delle squadre di produzione di Anemone Film e 10D Film, con cui ho realizzato tutti i miei lavori, stiamo cercando la strada migliore per arrivarci. Inutile dire che senza il lavoro di questi ragazzi sarebbe impossibile fare alcunché, quindi mi sento fortunato ad avere una squadra di persone giovani e in gamba, con cui condivido un percorso che è stato prima umano e formativo, e che da quando ci siamo diplomati stiamo trasformando in professionale, per cercare insieme la strada migliore per portare avanti un’idea di cinema e di fare cinema condivisa e in cui crediamo fortemente. Perciò li ringrazio ancora per l’apporto dato al film, il quale sento ogni volta che lo rivedo. Penso che il cinema abbia senso solo come opera collettiva, e che il divismo della figura del regista sia una sciocchezza inutile e superficiale, che non fa bene a nessuna opera e che purtroppo è molto diffusa culturalmente, specialmente nel nostro paese. Spero di poter continuare a lavorare, portando avanti questa idea, con le persone con cui sto condividendo questo percorso, e con chiunque ritenga che l’importante sia fare del cinema in cui si crede fortemente, nonostante i riconoscimenti e le selezioni.