La Voix des Autres (The Voice of Others) è l’ultimo cortometraggio diretto da Fatima Kaci e prodotto da La Fémis, attualmente parte del catalogo distributivo di Sayonara Film. Il corto d’esordio, sulle scene internazionali, della giovane regista (classe 1992), non solo è stato tra i quattordici corti selezionati dalla Cinef per l’edizione 2023 del Festival di Cannes, ma ha anche vinto l’ambito premio Lights on Women Award, assegnato, come ogni anno, tra i cortometraggi di giovani registe, selezionati in qualsiasi delle categorie della kermesse francese. Il successo di Kaci segue quello di Mai Vu, vincitrice dello stesso premio per l’anno precedente, il cui film Spring Roll Dream è anch’esso presente del catalogo di Sayonara.

Le apparizioni internazionali per La Voix des Autres, non si sono fermate a Cannes: Roma (Rome Independent Film Festival), Kiev (Molodist), il Cairo (Cairo International Film Festival), Santa Barbara (Santa Barbara International Film Festival ) e Monaco di Baviera (Filmschoolfest Munich), sono solo alcuni dei festival ai quali il corto ha partecipato. Ed il suo percorso continua, con l’imminente partecipazione al prestigioso Clermont-Ferrand Short Film Festival. A distanza di qualche mese dall’esperienza di Cannes, che ha dato inizio a questo straordinario percorso, abbiamo avuto l’occasione di parlare direttamente con la regista, per scoprire l’origine della sua carriera e guardare al futuro che le si sta aprendo.

Ciao Fatima, grazie per aver trovato il tempo di parlare con noi, sappiamo quanto tu sia impegnata in questo periodo. Potresti raccontarmi in poche parole come sei entrata nel mondo della regia, il tuo percorso nell’industria cinematografica e le tue esperienze sul set?

Ho realizzato dei primi cortometraggi già durante i miei studi all’Università Paris 8, dove ho conseguito una laurea triennale in cinema. Questi film erano ancora più che altro degli esercizi. Successivamente ho deciso di frequentare la scuola statale di cinema per approfondire la mia formazione e cercare di inserirmi professionalmente in questo ambito. Dopo aver fallito per due volte l’ammissione a la Fémis, non mi sono arresa e ho avuto la fortuna di incontrare il regista Guillaume Brac, che mi ha offerto la possibilità di essere assistente alla regia nel suo lungometraggio documentario L’ile au trésor (Treasure Island). Questa esperienza mi ha insegnato molto, ho ritentato il concorso, che ho finalmente superato al terzo tentativo. Durante il mio percorso accademico, ho realizzato tre film, tra documentari e fiction, cercando di sviluppare una continuità nella mia espressione cinematografica. La Voix des Autres, in particolare, ha avuto un ottimo successo, aprendo prospettive future all’interno dell’industria cinematografica.

Migrazione e rifugiati, sono quotidianamente sotto l’attenzione dell’opinione pubblica, ma le storie personali dietro questi temi rimangono, troppo spesso, invisibili. Se, a volte, i volti emergono, le voci restano inascoltate. Il film vuole andare oltre la ricostruzione della tragedia del viaggio, cerca di esplorare l’esperienza delle persone oltre i numeri e le conseguenze di un trauma che continuano anche dopo essere arrivati in Europa. Cosa ti ha spinto a voler raccontare la loro storia da questo punto di vista?

Avevo il desiderio di spostare lo sguardo sulle rappresentazioni di queste esperienze e realtà, lavorando sulla legittimità della voce e dell’esperienza vissuta. Volevo esplorare il concetto di “fare racconto” ed “esistere” di fronte a istanze istituzionali e amministrative. La questione della traduzione è stata una presenza costante nella mia vita e nel mio percorso, e questo film riflette il mio rapporto con la lingua, le parole e il desiderio di fare cinema, nonostante non sia rifugiata e sia nata in Francia.

Qual era quindi l’obiettivo che avevi in mente per questa narrazione? Quale orientamento volevi dare alla regia?

Nel mio lavoro, ho cercato di scrivere racconti non spettacolari, di filmare volti con dignità e di costruire una narrazione complessa e al tempo stesso semplice. Volevo realizzare una fiction “documentaria”, esplorando il confine tra documentario e finzione e cercando l’universale nelle esperienze, nei volti, nei corpi e nei temi trattati. Era importante rendere visibili gli spazi poco conosciuti e poco documentati al di fuori delle associazioni di assistenza ai rifugiati. Molte persone non comprendono quanto la macchina amministrativa e le politiche migratorie rafforzino la violenza dei percorsi già difficili prima di arrivare, riproducendo ansie e paure. L’attesa e la grande vulnerabilità dietro le parole “rifugiato” e “migrante” sono spesso sottovalutate, e il mio film cerca di esplorare concretamente la prova comune di molte persone in arrivo: la richiesta d’asilo. Ho voluto mettere in scena gli enigmi che vanno oltre la procedura stessa, interrogando cosa significhi accogliere una storia e una testimonianza.

Gli attori, in particolare la protagonista Amira Chebli, giocano un ruolo fondamentale in un’opera così intima e delicata, basata su una forte interiorizzazione della storia da parte degli interpreti. Qual è stata la tua relazione con loro? Come li hai scelti e pensi che l’opera abbia raggiunto l’obiettivo che volevi darle?

Per trovare gli attori per questo film, ho cercato di incontrare le persone prima di giudicare il loro talento come attori. Ho valutato anche il modo in cui avevano elaborato la fase della richiesta d’asilo nel loro percorso. Mi sono rivolta a artisti in esilio o sensibili alla questione artistica, persone desiderose di lavorare sulla propria storia e pronte a farlo in modo consapevole. Non volevo riprodurre la violenza del sistema ed esporli a ulteriori sofferenze. Questo processo ha sollevato questioni etiche che ho cercato di affrontare con cura. Tutti gli attori, con esperienze di recitazione molto diverse, sono stati veri alleati nel progetto.

Il cortometraggio sta ottenendo un grande successo, la selezione a Cannes e il premio Lights On Women Award, ricevuto dalle mani dell’attrice e giudice Kate Winslet, oltre che il coronamento di un lavoro hanno cementato l’inizio per una nuova esperienza. Era la prima volta che avevi partecipato a Cannes? Come l’hai vissuta? Cosa hai tratto da questa esperienza?

È magnifico che un film come questo abbia ottenuto così tanta visibilità, e ciò è stato reso possibile grazie al Festival di Cannes. È stata la mia prima volta e ho potuto incontrare altri registi e condividere l’esperienza con il mio team. È una grande ricompensa essere stati selezionati in questa competizione internazionale così esigente, soprattutto perché le questioni trattate vanno oltre il contesto francese. Il premio non me lo aspettavo, ma è stato commovente che Kate Winslet lo abbia scelto e che abbia elogiato il lavoro degli attori sul film. È un segno di riconoscimento significativo e sostiene il mio futuro lavoro. Dobbiamo accettare una parte del gioco dell’industria cinematografica, essere selezionati o meno è difficile poiché molti film meritano di essere messi in luce. Quando accade per le giuste ragioni, ci incoraggia a continuare.

Sul futuro la giovane autrice non si sbilancia, ci rivela che è alle prese con la scrittura di un nuovo progetto, questa volta un lungometraggio. Noi di Sayonara le facciamo i nostri migliori auguri e siamo sicuri che Fatima Kaci, una tra le più interessanti giovani registe del panorama europeo continuerà questo percorso in crescita.

Vincenzo Lombardi