Penumbra, quasi ombra. In astronomia questo termine è usato per indicare la regione che circonda un cono d’ombra e dalla quale è possibile osservare l’eclissi parziale di un astro. Una attenuazione transitoria, scomparsa, sparizione a metà. 

Penumbra di Alberto Mangiapane, è una perfetta analogia terrena di questo fenomeno. Il cortometraggio, realizzato nel 2021, ha subito riscontrato apprezzamenti della critica inserendosi nella Selezione Ufficiale del Roma Independent FIlm Festival 2021 ed è tornato questo mese sugli schermi del Festival Corti sul Mare di Terracina. Mangiapane viene da un percorso di formazione cinematografica che lo ha portato vicino alla video arte e al cinema sperimentale, e i cui elementi formali ritroviamo nel suo lavoro oggi. Con Penumbra il regista decide di affrontare una tematica tra le più delicate, quella dell’elaborazione del lutto. 

In una remota terra contadina, una coppia cerca di sopravvivere in seguito alla perdita del figlio. Il tempo passa, ma la presenza del defunto, la sua ombra terrena, non sembra voler abbandonare quei luoghi. Sopravvivere è la parola chiave di tutta la narrazione. Nella percezione comune la vita umana scorre in avanti, mentre qui non c’è movimento. Tutto, i personaggi, le ambientazioni, le azioni della quotidianità sono bloccate, cristallizzate in un loop emotivo e allucinatorio. I protagonisti, distrutti dal dolore, non riescono ad accettare la possibilità di muovere avanti e lo stesso pare fare colui che non è andato via. Non è chiaro se si tratti di un fantasma o di una allucinazione, se siano i genitori a tenerlo lì o sia il bambino a non accettare la propria morte, ma egli sopravvive in quella casa. Non solo, il bambino che era si mostra contemporaneamente nel giovane uomo che avrebbe potuto essere, vivo, bello, in salute. La sua versione più matura si prende cura del bambino, lo protegge e gli impedisce di andare via, di essere soffocato dal bisogno di guarigione del padre.

Il limbo in cui vivono i personaggi non è solo temporale, ma si esemplifica anche negli spazi e nelle ambientazioni che contribuiscono a rendere la narrazione indefinita e a suscitare uno straniamento continuo nello spettatore.

La famiglia potrebbe vivere nel nostro tempo, in un luogo contemporaneo, ma rurale. Potrebbe vivere nel tempo irreale del ricordo, a metà tra il passato dell’infanzia e il presente della vecchiaia. Alcuni elementi, come la spazzola per i panni in plastica o l’inalatore, si inseriscono in totale contrasto con il resto della scenografia e degli oggetti di scena, tanto da apparire quasi anacronistici. Ogni dettaglio contribuisce in maniera eclatante a rendere il non-tempo della storia e far entrare anche chi guarda nel limbo. Un messaggio finale, la dedica alla propria famiglia, lascia pensare che l’intenzione sia proprio quella di slegare da qualsiasi definizione una condizione che appartiene ad ogni epoca e, dunque, al tempo non può riferirsi. La campagna, metonimia della terra stessa, potrebbe essere intesa in quanto sinonimo di rinascita, ma forse rappresenta più la possibilità della rinascita che una madre distrutta decide di non cogliere. La terra è attaccamento terreno, alla vita com’era prima. La campagna appare inoltre come un luogo lontano e isolato, in cui i protagonisti si autocondannano a restare, a sopravvivere, alimentando le proprie illusioni, consumandosi nel dolore. Lontani da ogni altra forma di vita umana paiono seccarsi e impolverarsi, come le mura che li circondano. 

Nel 1969, Elisabeth Kübler-Ross ha descritto cinque fasi popolari del dolore, comunemente denominate diniego, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione. I suoi studi volevano dimostrare l’universalità delle sensazioni e degli stati psicologici conseguenti ad una perdita e, seppur negli anni non ci sono state dimostrazioni empiriche, le categorie di Kübler-Ross rimangono ancora il principale riferimento quando si tratta l’argomento. In questo cortometraggio ci troviamo immobilizzati in quella che dalla descrizione di Ross è la fase del diniego. Marito e moglie non accettano il lutto e restano in vita a metà, tra luce ed ombra, nella speranza che l’immagine sfocata del figlio torni ad essere reale. 

Denise Nigro