mago

Cosa succede quando la realtà è una forma di illusione e l’illusione è una forma di realtà? Francesco d’Antonio – dopo aver calcato i palchi di Zelig OFF, Comedy Central ed Eccezionale Veramente – trova nei labili confini delle etichette cinematografiche un territorio di mezzo che permette al suo nuovo cortometraggio di funzionare perfettamente. La triste vita del Mago, prodotto da Unitalia, debutterà ad agosto al Festival Internazionale Inventa un film nella sezione Cortometraggi Autori Italiani 2020. Il regista, in maniera comica, gioca sul filo del rasoio tra documentario e finzione, nella terra di confine tra realtà e illusione. Attraverso delle interviste ripercorre la vita tormentata di Mariano Astuzzi, un mago incapace di controllare le sue magie e che, a causa di esse, scompare misteriosamente.

Lo scontro con la realtà è evidente già dalla prima scena ma, proseguendo nella visione, ci si rende
conto che sotto alla superficie si nasconde un geniale sistema a “scatole cinesi” dove ciascun
tassello mostra e al contempo nasconde ogni cosa allo spettatore. Il primo tassello è il tema della magia e dell’illusionismo che sembra una scelta tutt’altro che casuale. Procedendo a ritroso nella storia del mezzo filmico, il cinema è stato considerato arte illusionistica ed artificiosa per eccellenza, lente che distorce la realtà e celebrazione del colpo di scena che spiazza il pubblico intrecciandosi in molte occasioni con il mondo magico. Quello che fanno i maghi e i registi è molto simile, non a caso uno dei pionieri della cinematografia fu Georges Méliès già illusionista e proprietario di un teatro di magia.

Un secondo tassello è rappresentato dal livello diegetico: la stessa storia (in)credibile del protagonista ci rende improvvisamente inconsapevoli e dubbiosi se ciò che stiamo vedendo corrisponda alla realtà o faccia parte anch’esso della messa in scena. Come Mariano Astuzzi lascia il suo pubblico con la domanda “dov’è finito?”, Francesco d’Antonio ci lascia smarriti e confusi trasformando la realtà in una rappresentazione di essa. Il terzo tassello è infatti la riflessione meta-cinematografica tipica del genere mockumentary: ci vengono mostrati i “retroscena” della realizzazione del documentario che diventano gli elementi di rottura della parete della credibilità. Veniamo guidati in un meccanismo attentamente studiato in cui l’unica certezza è il dubbio. Il tutto è veicolato da una comicità brillante e fresca che raramente si trova in un cortometraggio e che funziona da collante per questo mosaico: la risata alleggerisce, mette a proprio agio e “fa dimenticare” la necessità di riflettere sull’effettiva veridicità dei fatti. Un film che potrebbe richiamare alla mente la bizzarra, e geniale, sperimentazione di Orson Welles in F for Fake: il regista non punta a determinare quale sia effettivamente la realtà e quale l’illusione ma concretizza una stimolante provocazione…e se fossero vere entrambe?

Nina Bonatti