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Bianca ha 18 anni, e sogna di diventare una musicista. Vittoria ne ha 47, ed è fortemente ancorata alla sua indipendenza. Entrambe si devono confrontare con un’immaginaria realtà costrittiva che impone loro un conto alla rovescia predeterminato, in nome della salvaguardia della nazione, sulla possibilità di essere o non essere madri. Verranno messe di fronte a una decisione, nella divisione intrinseca che comporta il “peso” di essere donne, tra l’ubbidire a questa costrizione, o l’essere etichettate come un problema, perseguendo i loro desideri di libera scelta sul proprio futuro.

Il fagotto, primo cortometraggio di fiction della regista Giulia Giapponesi, dalla sua prima mondiale a Roma ad Alice Nella Città ha viaggiato in numerosissimi festival – tra Canada, Armenia, Portogallo, Macedonia, Spagna, Stati Uniti, Germania, conquistando il premio Fedic Award al Reggio Film Festival e il Best Short al Busto Arsizio Film Festival e rassegne, oltre ad essere stato incluso nel programma“Cortometraggi Che Passione” di FICE e nell’inziativa “10 corti in giro per il mondo” promossa dal Centro Nazionale del Cortometraggio, in collaborazione con Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Un percorso che oggi torna a casa, in Emilia Romagna, perché è la volta del festival della Cineteca di Bologna Visioni Italiane. E proprio una peculiarità del territorio dell’Emilia-Romagna contraddistingue l’opera a livello visivo: viene interamente utilizzato lo scenario architettonico della “città metafisica” di Tresigallo, caratterizzato dai suoi edifici in stile razionalista completamente ricostruiti negli anni ’30 del secolo scorso. L’architettura pregna di geometrie e cromatismi serrati rappresenta visivamente l’ideologia dittatoriale dalla quale è nata, e Giapponesi trasporta l’eco di tale ideologia non solo nell’ambientazione e nelle atmosfere, ma la rende oggetto di riflessione centrale della vicenda.

Il tema dell’autorità ideologica viene declinato nella delicata questione del controllo del corpo femminile, la quale ai nostri giorni si presenta ancora di allarmante attualità. Nell’opera le due protagoniste vivono perpetuamente l’oratoria dell’onere materno, esternata sia dalle politiche di governo che da un ambiente femminile non contrario alla sua imposizione, come soluzione obbligata e doverosa a fronte della denatalità nazionale. Le donne sono infatti sottoposte ad un monitoraggio annuale della loro situazione sentimentale, e in caso di mancata maternità, sono tenute a giustificarsi per questa mancanza, venendo inoltre spronate nel cambiare idea riguardo ambizioni che possano divergere dal ruolo genitoriale. Bianca, e in maggior misura Vittoria, subiscono il carico del senso di colpa generato dalla retorica del “noi” patriottico – enfatizzata anche dall’utilizzo di manifesti propagandistici richiamanti le grafiche fasciste – e vengono additate come sovversive ogni qual volta mostrino l’intento di rifiutarsi, applicando il libero arbitrio, di sottostare a quella dottrina autoritaristica.

La pressione sociale e psicologica rappresentata dalla regista riflette a pieno la condizione quotidiana della popolazione femminile mondiale, nella tensione vissuta tra la volontà di emanciparsi in nome della libera scelta sul proprio corpo e sulla propria vita, e le accuse di egoismo perseverate da una concezione della donna come inevitabilmente deputata alla riproduzione e all’incarico materno.

Bianca e Vittoria, l’una all’inizio e l’altra alla fine, incarnano gli antipodi cronologici della fertilità femminile e il desiderio di ribellarsi agli obblighi sociali che questa comporta, e si incontrano saldamente nella volontà di liberarsi, con la possibilità di scegliere di perseguire le loro personali aspirazioni, dalle millenarie imposizioni sull’essere donne.

Chiara Bardella

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