La Bête still1

Un villaggio sperduto nelle campagne bretoni, un bambino dai capelli rossi e gli occhi grandi come il cielo, boschi misteriosi, volti senza tempo, una lunga notte.

È La Bête, l’ultimo cortometraggio prodotto da Paprika Films per la regia dell’italiano Filippo Meneghetti, al momento in lavorazione del suo primo lungometraggio che, come questa piccola gemma, sarà girato in Francia. Una nuova avventura distributiva che si inaugura oggi, con l’anteprima francese del film al festival Court Métrange di Rennes, capoluogo della Bretagna. Un esordio che la dice lunga, perché si tratta di in un evento dedicato al cinema dell’insolito e del fantastico.

La pelle d’oca è assicurata, monta la tensione durante la visione di questo cortometraggio: l’angoscia di un nonno che ama il suo nipotino diventa quella di un paese intero.

Il bambino è caduto in un fosso, un imbuto nella terra che ricorda vagamente la tromba dell’inferno dantesco. Risucchiato, sparito. Una forza malvagia si nasconde in quel vuoto, lo stesso tunnel oscuro che perfora lo spettatore nella primissima inquadratura del film, il dettaglio di un occhio. L’occhio di una capra. Una capra che inganna, che adesca, e che finisce per prendere in pugno la serenità di un intero villaggio, stravolgendo la ticchettante monotonia della vita quotidiana.

Simbologie demoniache a parte, infatti, la vera protagonista del film è la paura, che domina sui volti dei popolani sprofondati nel panico, nella preghiera incessante e quasi logorante che li accompagna al lume di fiammelle nella notte. Il terrore è tangibile, fisico, si incarna nell’abbaiare di un cane, e non è mai esposto nella sua accezione più pornografica, quella repulsiva e assuefacente insieme.

La lingua del film è un bellissimo bretone, dal sapore antico, che accentua il senso di stasi del villaggio, bloccato fuori dal tempo nella superstizione. I toni cupi completano immagini pensate limpide e caravaggesche, rifinite di particolari realistici, umani, con costumi curatissimi – Meneghetti crea un mondo estremamente credibile, un microcosmo funzionante che subito ci cattura e ci racconta anche tanto di più, anche tutto quello che non si vede.

Siamo anche noi con i popolani, quelli superstiziosi, quelli che snocciolano rosari, che vivono ogni minuto nell’angoscia dell’Apocalisse. Siamo nei loro sguardi sbarrati che ignorano e temono ciò che non c’è, nel loro speranzoso fervore religioso che si attacca all’esasperante attesa di una buona notizia, mentre dentro pesa il presagio dell’inferno in terra.

Tutto quello che non sanno è quello che fa davvero paura. In pochi hanno il coraggio di addentrarsi oltre per scoprilo – è sempre l’amore a guidarli.

Olga Torrico