Abbiamo intervistato i registi de Il turno, Chiara Marotta e Loris Giuseppe Nese, i quali ci hanno parlato dell’ideazione e realizzazione di questo loro ultimo cortometraggio, prodotto da Articolture ed esordito nel 2021 nella sezione Orizzonti della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, e poi entrato nel Concorso Ufficiale di numerosi festival nazionali ed internazionali, ultimo dei quali il Festa do Cinema Italiano in Portogallo. Il turno è una restituzione potente della precarietà lavorativa vissuta da parte della popolazione più giovane sul territorio italiano, condizione condivisa dai personaggi di Anna e Lucia, provenienti da background sociali differenti ma entrambe legate dal lavoro di badante per l’anziana Maria. I registi in quest’opera si sono interessati a raccontare nuovamente questa occupazione, molto specifica e tipica di alcune parti della loro città di provenienza, Salerno, sulla scia della realizzazione nel 2020 del cortometraggio d’animazione Malumore, anch’esso incentrato sul lavoro di badante ma dal solo punto di vista di una persona italiana. L’interesse per il tema nasce infatti anche dall’esperienza familiare personale dei registi, come punto d’accesso che viene in seguito elaborato nell’opera insieme ai loro legami con una realtà-documentario, e poi raccontati nel contesto di animazione e finzione del cortometraggio. Il lavoro di badante, specialmente nel salernitano, diviene qualcosa in cui si sintetizza una marginalità appartenente a determinate aree della città, unendosi al discorso di stabilità lavorativa che interessava loro mettere in scena.

La scrittura de Il turno, raccontano, è partita dalla volontà di un confronto, questa volta tra una protagonista italiana e una di origine africana, approfondendo il loro rapporto lavorativo per concentrarsi su come la stessa occupazione possa essere recepita in maniera diversa da due donne provenienti da contesti differenti. Il lavoro di preparazione e ricerca è stato fatto entrando in contatto con delle associazioni di stampo sociale che lavorano nel salernitano – tramite le quali hanno incontrato l’attrice Racheal Emmanuel –, così da poter approfondire il contesto della città in relazione alla specificità del lavoro di badante e del tipo di persone che svolgono questo lavoro oggi, mostrandone l’evoluzione storica nelle differenze rispetto a qualche anno fa, inerenti alla situazione dell’immigrazione e in particolare alla presenza di abitanti provenienti dall’Africa nel territorio salernitano. Nel caso della protagonista italiana, il lavoro viene quasi spontaneamente percepito come proprio perché tramandato in famiglia, o comunque come familiare in quanto tipico impiego delle donne salernitane conosciute. Per la protagonista africana, risalta invece un adattamento a qualcosa di nuovo del suo paese adottivo, trovandosi quindi a svolgere le stesse attività della prima ma in maniera sicuramente diversa.

Il lavoro di preparazione insieme alle attrici – oltre a Emmanuel, Rossella Di Martino e Vanda Cirillo Taiani –, come per i loro precedenti film, è stato molto specifico, in particolare sulla ricerca dei gesti e della ritualità che caratterizza il lavoro di badante così che esse riuscissero in qualche modo a restituirne in maniera spontanea i movimenti. Nel momento delle riprese, stabiliti dei punti fermi di sceneggiatura, erano chiamate poi anche a improvvisare e a svolgere quel lavoro in maniera più naturale e reale possibile. Nell’opera, le protagoniste sono entrambe parzialmente inesperte e non preparate a svolgere questo lavoro, data la giovane età, trovandosi perciò in situazioni spesso più grandi di loro, ma anche fisicamente si trattava di mettere in scena operazioni faticose, trovandosi quindi a svolgerne i gesti in maniera immersiva.

Questo lavoro sul corpo e sulla ritualità risalta in modo evidente nell’opera: centrali e onnipresenti nel contenuto e nella forma sono il ritmo, la ripetizione e la divisione del tempo, che scandiscono il corto nell’alternarsi tra le due protagoniste per i rispettivi turni di assistenza. L’opera assume infatti un rilievo di contrasti che a tratti passa dallo svolgimento narrativo interno al discomfort sensoriale esterno, per cui durante le situazioni d’attesa o d’inazione si inserisce l’elemento musicale fortissimo e invasivo o il lamento perpetuo e lancinante della signora allettata, o ancora si passa da una frenetica corsa per il ritardo all’assoluta quiete ed immobilità della vecchia casa. Anna e Lucia restano in uno stato di non-conoscenza e non-convivenza, incontrandosi solo nel momento di avvicendamento della responsabilità lavorativa e facendo tuttavia esplodere l’una sull’altra le frustrazioni e i risentimenti reciproci: il loro conflitto scaturisce dal contesto di malessere esteriore, e ha modo di manifestarsi solo quando la sospensione dello stesso si interrompe, rispecchiandosi insoluto tra i due personaggi quando si turnano il dovere lavorativo. Attraverso le immagini si evidenzia così uno stato di transizione e d’attesa continuo, segnato dal crescente peso della questione sia di valore, tra l’elemento materiale economico e quello vitale umano, sia morale, dove entrambe le giovani protagoniste portano avanti quotidianamente una lotta per assicurare un avvenire migliore a loro stesse e ai loro cari.

I registi erano già stati precedentemente a Venezia con Quelle brutte cose e Veronica non sa fumare, rispettivamente diretti da Nese e Marotta ed entrambi prodotti e distribuiti da Lapazio Film, società bolognese di cui fanno parte dove s’interessano alla sperimentazione tra mix di linguaggi, tecniche e generi. Ora, hanno in produzione un cortometraggio d’animazione in cui tornano a raccontare uno spaccato di vita di Salerno dal punto di vista di tre adolescenti, raccontando momenti di vita dell’adolescenza in uno specifico contesto di periferia, oltre a due lungometraggi e in chiusura una serie documentaria.

Chiara Bardella