Il mondiale in piazza 3

Un gruppetto di uomini seduti in un bar con le birre in mano e lo sguardo perso nel vuoto. Sui loro volti, il disorientamento tipico del maschio italico alla notizia dell’esclusione dai mondiali di calcio 2018. È così che inizia Il mondiale in piazza, nuovo cortometraggio di Vito Palmieri. Il film racconta la storia di un paesino nel quale si decide di organizzare un mondiale parallelo, per non dover rinunciare all’ebrezza di tifare Italia. Tutto bene, se non fosse che alcuni ragazzi dalla pelle scura o dai tratti mediorientali non ci vogliono giocare nelle squadre del “Senegàl” o della Siria: loro sono italiani e vogliono indossare la maglia azzurra.
Una storia d’integrazione che si realizza attraverso il compromesso di un campo di calcio, un tema importante e quanto mai urgente che nella forma leggera e apparentemente disimpegnata della commedia sportiva riesce a rendere immediato il suo messaggio.

Abbiamo incontrato Vito Palmieri per farci raccontare da dove è partito nella realizzazione di questo suo nuovo progetto.

Come ti è venuta l’idea per la storia de Il mondiale in piazza?

Questo cortometraggio nasce dalla voglia di partecipare al bando ministeriale MigrArti che chiede di raccontare le storie dei giovani di seconda generazione, i figli degli immigrati stabilmente residenti in Italia nati e cresciuti nel nostro paese. Personalmente, mi piace avere un tema di partenza sul quale innestare altre suggestioni più personali e ultimamente ho notato che proprio grazie alla modalità dei bandi sono riuscito a mettere meglio a fuoco delle storie che bene o male già avevo in mente.
Anche in questo caso, il soggetto del bando MigrArti è andato ad unirsi col desiderio di poter raccontare questa delusione dell’Italia che non si era qualificata al mondiale. Ho pensato fin da subito che questi due elementi, insieme, avrebbero potuto darmi qualcosa di interessante.

Da questo spunto iniziale, come è proseguito il lavoro di scrittura? E in generale, qual è il tuo metodo di lavoro con lo sceneggiatore?

In generale il metodo di lavoro cambia molto in base allo sceneggiatore con cui scelgo di collaborare e negli anni ho avuto la fortuna di lavorare con molti sceneggiatori diversi. L’input, l’idea iniziale molto spesso viene da me, ma l’affido quasi subito allo sceneggiatore per capire se può venirne fuori una struttura coerente. Quando poi questa struttura si è delineata come una prima bozza di progetto, mi vengono in mente nuove idee e intervengo molto a livello delle note, integrando gli aspetti più personali della storia.
In questo caso, per Il mondiale in piazza, ho lavorato con Michele Santeramo, che scrive prevalentemente testi per il teatro e con cui avevo già collaborato. Abbiamo fatto tutto a distanza e abbastanza velocemente perché mancava poco tempo alla scadenza del bando.
Io in quel momento ero a casa per Natale, a Bitonto, e nella piazza vedevo questi ragazzini che giocavano a calcio. Da un certo punto di vista, quindi, è stato abbastanza facile l’atto di scrittura anche per questo: sono riuscito a visualizzare fin dall’inizio molto bene quello che volevo raccontare.

A questo proposito, credi che avresti potuto girare Il mondiale in piazza in una città del Nord o pensi che l’averlo ambientato nella tua città natale, Bitonto, sia stata una scelta dettata da qualcosa in più che una motivazione puramente affettiva?

Ti dico la verità: all’inizio me lo sono chiesto se girarlo al nord o al sud. Ma, come dicevo, mentre buttavo giù le prime idee riuscivo già a visualizzare i volti, le situazioni, gli accenti e quella luce del sud che mi hanno praticamente portato fin dall’inizio alla decisione di girare in Puglia, nella piazza in cui sono cresciuto. Certo, non nascondo di aver girato la gran parte dei miei lavori precedenti qui a Bologna (n.d.r. Matilde, Anna bello sguardo o il documentario Da Teletorre 19 è tutto, distribuiti da Elenfant Distribution). Però questa storia l’ho sentita subito completamente pugliese.
Inoltre, penso che se avessi scelto di girare al nord sarebbe stato perché non avrei avuto in mente una piazza. Ecco, forse, questo mondiale amatoriale al nord non si sarebbe svolto in una piazza, ma l’avrei immaginato più probabilmente in una periferia. E il mondiale in periferia non avrebbe dato quel senso d’inclusione, d’integrazione che dà la piazza e che poi è il tema centrale del cortometraggio.

Questo film è una commedia. È questo un genere che tu, come regista, senti particolarmente affine per trattare temi così delicati?

Non esattamente. Io prima ancora che un regista sono un amante del cinema e da amante del cinema amo guardare tutti i generi. Mi piace vedere registi che non si chiudono in un solo genere, cosa che invece penso succeda spesso in Italia, per cui molte volte si finisce ad essere etichettati come “regista di docufilm”, “regista di commedie”, “quello che fa il genere drammatico”, e una volta che sei visto in questo determinato modo, non ti viene proposto nient’altro. Dal momento che da spettatore mi piace ogni genere e dal momento che faccio cinema, io voglio poter fare di tutto ed è per questo che ho sempre cercato di far vedere che sono in grado di raccontare quel che voglio raccontare attraverso diverse modalità narrative. Posso, quindi, fare una commedia per parlare di un tema importante come quello dell’integrazione e posso invece realizzare un docufilm, come è See you in Texas, andando nella direzione di un’opera dal sapore più intimista e arrivare a definirlo un film drammatico.
In questo caso ho scelto di fare una commedia soprattutto perché mi sono chiesto quale storia mi avrebbe permesso di vincere quel bando. Per quello che sta succedendo in questi anni, ho pensato che sarebbero arrivate tante storie drammatiche e allora ho deciso di puntare su qualcosa che sarebbe stato più originale. In fase di selezione, infatti, c’è stato detto che il film è stato premiato anche per questo, il che mi rende estremamente felice perché penso che né fare una buona commedia né un buon film di sport sia una cosa semplice. Essere riuscito ad unire questi due generi, oltretutto per raccontare un tema così delicato, si è però rivelata essere la scelta giusta.

Da regista, che in questi anni ha seguito i suoi lavori in giro per il mondo nel circuito dei festival di settore, che idea ti sei fatto sul futuro distributivo del cortometraggio?

La verità è che sappiamo che la vita del cortometraggio, almeno in Italia, è prevalentemente nei festival. Sì, adesso anche da noi si sta cercando di portare il cortometraggio nei cinema col supporto del FICE (Federazione Italiana Cinema d’Essai), oppure di trasmetterli alla televisione, ma non siamo ai livelli di altri paesi come la Francia dove sicuramente il cortometraggio è molto più visto.
Dopo essere stato un po’ assente nel settore ed essere tornato solo adesso con Il mondiale in piazza in questo mondo della distribuzione e dei festival di cortometraggio, devo dire, però, che qualcosa sta cambiando, soprattutto grazie ad alcune realtà che si sono create in Italia, tra cui anche appunto l’Elenfant Bolognese, le quali ci tengono molto ai corti che distribuiscono. Se una volta era solo il regista che aveva a cuore il suo cortometraggio e cercava di autodistribuirsi, adesso per fortuna ci sono anche dei distributori che credono in quello che distribuiscono e che considerano questi film come i loro film. E alla fine penso che siano queste poche realtà che a breve potranno fare la differenza per il mercato del cortometraggio.

Il mondiale in piazza ha già vinto, tra gli altri premi, il Best short nella sezione MigrArti alla 75esima Mostra Internazionale di Cinematografia d Venezia e ha ricevuto il Leone Film Group Prize nella sezione Alice nelle città alla Festa del Cinema di Roma. Per i bolognesi che se lo fossero perso, il film di Palmieri verrà proiettato il 6 febbraio alle ore 20.30 al centro civico Borgatti.

Marianna Carpentieri